Cosa succede a “spedire” nell’etere un’e-mail invito per una serata di degustazione in un locale milanese? Succede che il tam-tam del passaparola fa girare talmente tanto questa mail che davanti al locale, all’ora prestabilita, si ritrova un gruppo di 6 semi-sconosciuti più o meno “impanicati” a cercare di ricostruire “chi è l’amico di chi” e come ha ricevuto l’invito...
Parafrasando una canzone del Liga (e riadattandola per l’occasione…) mi verrebbe da cantare: << Niente paura, ci pensa il VINO, mi han detto così… >>. Se poi ci mettiamo anche un bel tagliere di salumi e formaggi, beh… Fate vobis !!!
Le idee sul vino da ordinare sono le più svariate, ma almeno su un paio di cose siamo tutti d’accordo: ordinare un bianco e un rosso, rigorosamente “particolari” e fuori da tutto ciò che normalmente si beve… Magari qualche chicca a base di vitigni autoctoni…
Il posto – che merita assolutamente la citazione, quindi… Enoteca Decanter, Via Castelvetro 20, Milano (trasversale di Corso Sempione/zona Domodossola) – ci propone una ricca carta dei vini, con parecchie etichette “di nicchia” del panorama nazionale e qualche tocco di internazionalità (quasi esclusivamente Francia).
Optiamo quindi per il primo vino, citato dal nostro relatore Guido Invernizzi nel corso dell’ultima lezione sulla Campania: Furore Bianco Fiorduva 2006, DOC Costa d’Amalfi, prodotto dall’azienda Marisa Cuomo con 3 vitigni bianchi, 3 rarissimi autoctoni campani: Fenile (30%), Ginestra (30%), Ripoli (40%). Il primo impatto, appena dopo la stappatura, è comunque di grande effetto: un colore giallo dorato intensissimo, senza alcun cenno di cedimento, ed una mineralità – forse favorita dalla temperatura, un po’ troppo bassa, a mio avviso – che punge il naso, promettendo già una certa sapidità in bocca…
E qui mi rendo conto quanto influiscano, in una degustazione “di gruppo”, le opinioni di chi ci sta intorno… Abituato ad essere un po’ il “pulcino” del gruppo in mezzo a tanti “Sommelier/chiocchia”, rimango un po’ basito da questa strana caccia alla descrizione gusto-olfattiva più suggestiva – ma anche più inverosimile – di un bianco (2006 !!!) che è nel bicchiere da 2 minuti… Ed in attesa che il vino si “apra” nella sua giusta dimensione olfattiva, non mi resta che ammirare il tagliere di salumi e formaggi servitoci con maestria da una giovane e tatuatissima (nonché altrettanto ammirevole!!!) sosia di Amy Winehouse.
Per i salumi, segnalo, nell’ordine: bresaola Valtellina DOP, prosciutto cotto alla brace (di cui purtroppo non ricordo i riferimenti…), salame toscano “Finocchiona”, prosciutto crudo San Daniele DOP 24 mesi. Mentre per i formaggi (e qui confesso la mia discreta ignoranza…): una robiola fatta con 3 diversi tipi di latte (vaccino, caprino e ovino), un formaggio molle bresciano con acquavite e segale (vaccino), un Taleggio della bergamasca, un Camembert AOC Normandia (vaccino) ed un meraviglioso Blu Stilton inglese (vaccino erborinato).
Ma torniamo a “finire” il nostro Fiorduva, dove ora arrivano al naso sentori floreali di ginestra e di acacia, di frutti gialli maturi che spaziano dall’albicocca alla pesca gialla all’ananas. In bocca è una conferma dell’ottimo lavoro svolto su questi vitigni a me ignoti: l’entrata è fluida, morbida, ricca... Richiama i sentori di albicocca essicata, di scorze di agrumi candite, di uva bianca appassita. Tutte sensazioni che rimangono impresse a lungo, nella mente e in bocca, con un retrogusto piacevolemente dolce. La struttura, di corpo, è comunque ottimamente bilanciata da una spalla acida ancora piacevolmente viva e da quella sapidità che ci era stata promessa al naso (e che è figlia dei terreni calcarei e dell’esposizione al mare dei terrazzamenti amalfitani dove si trovano i vigneti).
La curiosità mi ha quindi spinto a cercare ulteriori dettagli su questo vino, scoprendo (con un certo gusto, vista la sensazione di uva passa che avevo individuato in bocca) che la vendemmia viene fatta, manualmente, nella terza decade di ottobre, su uve surmature. La vinificazione avviene a freddo, con pressatura soffice degli acini accuratamente selezioanti. Affinamento per 6 mesi in barriques di primo passaggio a cui segue un anno in bottiglia prima della commercializzazione.
In conclusione, lo definirei una piacevole scoperta e ottimo da bere anche così, da solo. Saltando per ovvi motivi l’abbinamento con i nostri salumi, direi che regge abbastanza bene il confronto con tutti i formaggi sopra citati, anche se a mio avviso il top lo raggiunge con il Blu Stilton, dove il sapore deciso della muffa nobile contrasta e sostiene la corposità ed il finale dolce del vino. Parlando invece di abbinamenti con il cibo del territorio (Costiera Amalfitana), ci metterei un bel pesce al forno (una ricciola o un branzino) servita con qualcosa che ne richiami l’agrumato… magari una salsina o un sughetto coi celeberrimi limoni della Costiera!
Proseguendo, ecco un secondo giro della nostra “Amy”, che ci porta nuovamente la carta dei vini, dalla quale esce la mia proposta di passare ad un autoctono sardo, una “Nieddera” di Attilio Contini (eccezionale la sua Vernaccia di Oristano Riserva “Antico Gregori”, perfettamente conservata anche dopo 40 anni, di cui mi hanno versato “un’unghia” al Vinitaly 2010…). Ovviamente non c’è, per cui, “in the name of Invernizzi”, rimaniamo sugli autoctoni campani, optando per il vitigno casertano pallagrello…
Il vino, molto evocativo anche nel nome, è il Castello delle Femmine 2008, IGT Terre del Taburno, prodotto dell’azienda Terre del Principe di Peppe Mancini, con pallagrello nero (50%) e casavecchia (50%). Anche stavolta, i compagni di tavolata me lo massacrano un po’ troppo presto, sto povero vino, che essendo un inedito per i nostri nasi, è automaticamente meritevole di un secondo giudizio in appello…
Si parte – è vero – con un sentore floreale di fiori un po’ aciduli, che non saprei ben definire (e qui mi aiutano un paio di commenti trovati in internet che citano “garofano” e “peonia”), ma poi il vino si riprende cedendo tutte le “giuste” note di piccoli frutti rossi maturi (vista la pungenza, direi soprattutto ribes e fragoline) e virando su uno speziato “boscoso”, che mi ricorda un po’ l’odore delle pigne secche che d’estate si raccolgono da terra nelle passeggiate in montagna (per i “puristi” AIS traduciamolo pure con “bacche di ginepro”, anche se ne perdiamo un po’ lo spessore evocativo…).
In bocca l’assaggio è fresco e abbastanza scorrevole, con una punta finale di tannini che rivendicano il loro posto e che non sono ancora del tutto zittiti dall’affinamento in legno. L’alcolicità (14 gradi) è poco percettibile e lascia comunque ancora un po’ di spazio alle durezze, elemento che – con grande impopolarità da parte della platea – continua a farmi pensare che almeno un altro anno in bottiglia potrebbe ammorbidirlo ed amalgamarlo meglio.
La curiosità è femmina, si sa… E quindi vorrete ringraziare la mia parte femminile che anche stavolta mi ha spinto a cercare qualcosa di più su questo vino! Anche qui le sorprese non mancano: la vendemmia è fatta manualmente verso la metà di ottobre; dopo una macerazione prolungata il vino matura in barriques di secondo passaggio per circa 8 mesi e poi un anno circa in bottiglia.
Ma soprattutto, ho scoperto che, insieme con il proprietario Peppe Mancini, la rivalutazione di questi autoctoni è passata anche da una nostra recente conoscenza, il Prof. Luigi Moio (per chi non lo conoscesse, assaggiate la sua morbidissima falanghina “Via del Campo”, azienda Quintodecimo).
Per gli abbinamenti della serata, questo Castello delle Femmine si è rivelato ottimo per tutti i salumi, mentre per i formaggi l’ho trovato compagno ideale con il Camembert AOC della Normandia. Fuori dal contesto, lo berrei con un bel piatto di tagliatelle al ragù (ottimo suggerimento proveniente dalla mia dirimpettaia…) oppure, per stare su un secondo, un arrosto saporito ma non troppo impegnativo.
Un bell’applauso quindi a “Vinopedia” Invernizzi (come l’ha simpaticamente definito qualcuno dei presenti…): i suoi autoctoni hanno fatto centro ancora una volta… Certo, se un giorno dovesse leggere questo blog (e mi auguro che ciò possa avvenire DOPO il mio esame per diventare Sommelier…), sicuramente direbbe che saremmo dovuti andare direttamente a casa di Marisa Cuomo, a bere il Fiorduva, oppure nel casertano da Peppe a vedere i vitigni di pallagrello…
Se non altro, caro Guido, “a rubare il mestiere a chi traffica di vino” – come dici sempre tu – ci sto provando… Anzi, ci stiamo provando in tanti. L’importante è continuare ad incontrare persone, che come te, riescano a trasmettere la passione infinta che c’è dentro una bottiglia… E che spingano un gruppo di 6 semi-sconosciuti a riunirsi intorno ad un tavolo, per sciogliere timidezze e inibizioni cantando: << Niente paura, ci pensa il VINO, mi han detto così… >>.
Alla vostra !!!
Parafrasando una canzone del Liga (e riadattandola per l’occasione…) mi verrebbe da cantare: << Niente paura, ci pensa il VINO, mi han detto così… >>. Se poi ci mettiamo anche un bel tagliere di salumi e formaggi, beh… Fate vobis !!!
Le idee sul vino da ordinare sono le più svariate, ma almeno su un paio di cose siamo tutti d’accordo: ordinare un bianco e un rosso, rigorosamente “particolari” e fuori da tutto ciò che normalmente si beve… Magari qualche chicca a base di vitigni autoctoni…
Il posto – che merita assolutamente la citazione, quindi… Enoteca Decanter, Via Castelvetro 20, Milano (trasversale di Corso Sempione/zona Domodossola) – ci propone una ricca carta dei vini, con parecchie etichette “di nicchia” del panorama nazionale e qualche tocco di internazionalità (quasi esclusivamente Francia).
Optiamo quindi per il primo vino, citato dal nostro relatore Guido Invernizzi nel corso dell’ultima lezione sulla Campania: Furore Bianco Fiorduva 2006, DOC Costa d’Amalfi, prodotto dall’azienda Marisa Cuomo con 3 vitigni bianchi, 3 rarissimi autoctoni campani: Fenile (30%), Ginestra (30%), Ripoli (40%). Il primo impatto, appena dopo la stappatura, è comunque di grande effetto: un colore giallo dorato intensissimo, senza alcun cenno di cedimento, ed una mineralità – forse favorita dalla temperatura, un po’ troppo bassa, a mio avviso – che punge il naso, promettendo già una certa sapidità in bocca…
E qui mi rendo conto quanto influiscano, in una degustazione “di gruppo”, le opinioni di chi ci sta intorno… Abituato ad essere un po’ il “pulcino” del gruppo in mezzo a tanti “Sommelier/chiocchia”, rimango un po’ basito da questa strana caccia alla descrizione gusto-olfattiva più suggestiva – ma anche più inverosimile – di un bianco (2006 !!!) che è nel bicchiere da 2 minuti… Ed in attesa che il vino si “apra” nella sua giusta dimensione olfattiva, non mi resta che ammirare il tagliere di salumi e formaggi servitoci con maestria da una giovane e tatuatissima (nonché altrettanto ammirevole!!!) sosia di Amy Winehouse.
Per i salumi, segnalo, nell’ordine: bresaola Valtellina DOP, prosciutto cotto alla brace (di cui purtroppo non ricordo i riferimenti…), salame toscano “Finocchiona”, prosciutto crudo San Daniele DOP 24 mesi. Mentre per i formaggi (e qui confesso la mia discreta ignoranza…): una robiola fatta con 3 diversi tipi di latte (vaccino, caprino e ovino), un formaggio molle bresciano con acquavite e segale (vaccino), un Taleggio della bergamasca, un Camembert AOC Normandia (vaccino) ed un meraviglioso Blu Stilton inglese (vaccino erborinato).
Ma torniamo a “finire” il nostro Fiorduva, dove ora arrivano al naso sentori floreali di ginestra e di acacia, di frutti gialli maturi che spaziano dall’albicocca alla pesca gialla all’ananas. In bocca è una conferma dell’ottimo lavoro svolto su questi vitigni a me ignoti: l’entrata è fluida, morbida, ricca... Richiama i sentori di albicocca essicata, di scorze di agrumi candite, di uva bianca appassita. Tutte sensazioni che rimangono impresse a lungo, nella mente e in bocca, con un retrogusto piacevolemente dolce. La struttura, di corpo, è comunque ottimamente bilanciata da una spalla acida ancora piacevolmente viva e da quella sapidità che ci era stata promessa al naso (e che è figlia dei terreni calcarei e dell’esposizione al mare dei terrazzamenti amalfitani dove si trovano i vigneti).
La curiosità mi ha quindi spinto a cercare ulteriori dettagli su questo vino, scoprendo (con un certo gusto, vista la sensazione di uva passa che avevo individuato in bocca) che la vendemmia viene fatta, manualmente, nella terza decade di ottobre, su uve surmature. La vinificazione avviene a freddo, con pressatura soffice degli acini accuratamente selezioanti. Affinamento per 6 mesi in barriques di primo passaggio a cui segue un anno in bottiglia prima della commercializzazione.
In conclusione, lo definirei una piacevole scoperta e ottimo da bere anche così, da solo. Saltando per ovvi motivi l’abbinamento con i nostri salumi, direi che regge abbastanza bene il confronto con tutti i formaggi sopra citati, anche se a mio avviso il top lo raggiunge con il Blu Stilton, dove il sapore deciso della muffa nobile contrasta e sostiene la corposità ed il finale dolce del vino. Parlando invece di abbinamenti con il cibo del territorio (Costiera Amalfitana), ci metterei un bel pesce al forno (una ricciola o un branzino) servita con qualcosa che ne richiami l’agrumato… magari una salsina o un sughetto coi celeberrimi limoni della Costiera!
Proseguendo, ecco un secondo giro della nostra “Amy”, che ci porta nuovamente la carta dei vini, dalla quale esce la mia proposta di passare ad un autoctono sardo, una “Nieddera” di Attilio Contini (eccezionale la sua Vernaccia di Oristano Riserva “Antico Gregori”, perfettamente conservata anche dopo 40 anni, di cui mi hanno versato “un’unghia” al Vinitaly 2010…). Ovviamente non c’è, per cui, “in the name of Invernizzi”, rimaniamo sugli autoctoni campani, optando per il vitigno casertano pallagrello…
Il vino, molto evocativo anche nel nome, è il Castello delle Femmine 2008, IGT Terre del Taburno, prodotto dell’azienda Terre del Principe di Peppe Mancini, con pallagrello nero (50%) e casavecchia (50%). Anche stavolta, i compagni di tavolata me lo massacrano un po’ troppo presto, sto povero vino, che essendo un inedito per i nostri nasi, è automaticamente meritevole di un secondo giudizio in appello…
Si parte – è vero – con un sentore floreale di fiori un po’ aciduli, che non saprei ben definire (e qui mi aiutano un paio di commenti trovati in internet che citano “garofano” e “peonia”), ma poi il vino si riprende cedendo tutte le “giuste” note di piccoli frutti rossi maturi (vista la pungenza, direi soprattutto ribes e fragoline) e virando su uno speziato “boscoso”, che mi ricorda un po’ l’odore delle pigne secche che d’estate si raccolgono da terra nelle passeggiate in montagna (per i “puristi” AIS traduciamolo pure con “bacche di ginepro”, anche se ne perdiamo un po’ lo spessore evocativo…).
In bocca l’assaggio è fresco e abbastanza scorrevole, con una punta finale di tannini che rivendicano il loro posto e che non sono ancora del tutto zittiti dall’affinamento in legno. L’alcolicità (14 gradi) è poco percettibile e lascia comunque ancora un po’ di spazio alle durezze, elemento che – con grande impopolarità da parte della platea – continua a farmi pensare che almeno un altro anno in bottiglia potrebbe ammorbidirlo ed amalgamarlo meglio.
La curiosità è femmina, si sa… E quindi vorrete ringraziare la mia parte femminile che anche stavolta mi ha spinto a cercare qualcosa di più su questo vino! Anche qui le sorprese non mancano: la vendemmia è fatta manualmente verso la metà di ottobre; dopo una macerazione prolungata il vino matura in barriques di secondo passaggio per circa 8 mesi e poi un anno circa in bottiglia.
Ma soprattutto, ho scoperto che, insieme con il proprietario Peppe Mancini, la rivalutazione di questi autoctoni è passata anche da una nostra recente conoscenza, il Prof. Luigi Moio (per chi non lo conoscesse, assaggiate la sua morbidissima falanghina “Via del Campo”, azienda Quintodecimo).
Per gli abbinamenti della serata, questo Castello delle Femmine si è rivelato ottimo per tutti i salumi, mentre per i formaggi l’ho trovato compagno ideale con il Camembert AOC della Normandia. Fuori dal contesto, lo berrei con un bel piatto di tagliatelle al ragù (ottimo suggerimento proveniente dalla mia dirimpettaia…) oppure, per stare su un secondo, un arrosto saporito ma non troppo impegnativo.
Un bell’applauso quindi a “Vinopedia” Invernizzi (come l’ha simpaticamente definito qualcuno dei presenti…): i suoi autoctoni hanno fatto centro ancora una volta… Certo, se un giorno dovesse leggere questo blog (e mi auguro che ciò possa avvenire DOPO il mio esame per diventare Sommelier…), sicuramente direbbe che saremmo dovuti andare direttamente a casa di Marisa Cuomo, a bere il Fiorduva, oppure nel casertano da Peppe a vedere i vitigni di pallagrello…
Se non altro, caro Guido, “a rubare il mestiere a chi traffica di vino” – come dici sempre tu – ci sto provando… Anzi, ci stiamo provando in tanti. L’importante è continuare ad incontrare persone, che come te, riescano a trasmettere la passione infinta che c’è dentro una bottiglia… E che spingano un gruppo di 6 semi-sconosciuti a riunirsi intorno ad un tavolo, per sciogliere timidezze e inibizioni cantando: << Niente paura, ci pensa il VINO, mi han detto così… >>.
Alla vostra !!!
Sembra interessante questo Decanter, penso che ci andrò a fare un giro.
RispondiEliminaInvece mi ha lasciato un po' perplesso la dolcezza che hai trovato nel leggendario Fiorduva(se non ricordo male qualche anno fa è stato votato miglior bianco d'Italia). Io lo ricordo come un vino secco, tutt'al più "ammorbidito", ma solo al naso!, dai sentori di spezia dolce che gli arrivano dalla barrique. E faccio fatica a immaginarlo ben armonizzato con uno stilton, che piuttosto si meriterebbe un bel muffato, per non dire un sauternes.
Ma io al Decanter non c'ero e gli assenti, si sa, hanno sempre torto.
Grande Bombe, in quella serata confesso di aver sentito un po' la mancanza della tua presenza "riequilibratrice"... E lo dico senza ironia, sia chiaro!
RispondiEliminaQuanto al tuo intervento, ti posso dire che l'abbinamento del Fiorduva allo Stilton (che non conoscevo!) non è da intendersi in senso assoluto, ma semplicemente mi sembrava il formaggio più indicato fra quelli presenti... E di certo la sensazione di dolcezza fruttata del retrogusto finale non è nemmeno lontanissima parente di un muffato o di un sauternes... E per non smentirti, ne attendo speranzoso una buona bottiglia! Poi magari lo stilton lo vado a cercare io... ;-)
Confesso...fatico ad immaginare come un stesso vino si possa abbinare sia con lo stilton che con un branzino al forno con sugo agrumato, ma mi fido ciecamente del mitico Davide e quindi se lo dice lui è sicuramente vero!
RispondiEliminacome al solito bellissimo post soprattutto perchè al di là dei necessari tecnicismi, Davide riesce sempre a trasmettere emozione e passione, che alla fine, sono le due cose veramente importanti per chi ama il vino.
Condivido quello che dice il Bombe..ti viene proprio voglia di fare un giro in questo Decanter! Magari ci andremo tutti insieme!!
Per finire, una citazione d'onore al Fiorduva. Può anche non piacere ma è una vera istituzione nell'enologia italiana. Non si può non assaggiare una volta nella vita.
Io, in verità, sono stata anche da loro una decina di anni fa, quando erano già famosi...peccato che ero astemia e non capivo nulla di vino. Ricordo solo che la cantina si trova in un posto stupendo. Furore è un piccolo paese dal quale puoi ammirare dall'alto tutta la cosa amalfitana. Incredibilmente bello!!! Da andarci, assolutamente!!!
OK, la storia dello stilton è opinabile, ma rimane il fatto che Davide è un grandissimo. Ieri sono andato a vedere la recensione del Fiorduva su Duemilavini e ho trovato che ci ha preso in pieno: profumi di ginestra e abbinamento col pesce in salsa d'agrumi!
RispondiEliminaUn mito!!
Siete troppo avanti...come fate a sentire il profumo di ginestra?? Ma la ginestra, che profumo ha?? Quanta strada devo ancora fare....
RispondiEliminaVale è esattamente quello che ho pensato anche io!
RispondiEliminaLa scorsa settimana ho persino chiesto a mia mamma di piantare una ginestra in giardino, così ne imparo il profumo, ma mi ha detto che le ginestre che crescono al nord perdono completamente i profumi di quelle autoctone...
:-( povere noi...
le ginestre del nord sono rosse!!!
RispondiEliminaallora... nella casa dei miei genitori, a Mirabello (FE), mia mamma "coltiva" da anni un giardino roccioso dove è presente una certa varietà di piante e cespugli...
RispondiEliminaFra questi, i miei ricordi più vivi sono una pergola di gelsomino e un grosso cespuglio di ginestra (giallo!): ecco svelato il motivo!
Comunque la ginestra c'era anche da Biava: bastava annusare (e qui giustifico solo la Betty, perché era assente)!
Davide, non penserai mica di intortarci così!! Lo sappiamo tutti che la ginestra che cresce sul sas de luna di Scanzo è completamente diversa da quella che ha il suo habitat nelle piane alluvionali limo-argillose della bassa ferrarese o peggio ancora da quella che prospera sulle rocce dolomitico-calcaree delle terrazze di Furore.
RispondiEliminaE attenzione che sto considerando solo le differenze di terroir, mettici anche le specificità clonali di ogni ginestra e la frittata è fatta!